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Coniglietti, coyote, cadaveri e sgombri

Apparso su novantatrepercento.it #22 aprile 2021

La compassione

1. Un uomo scivola su una buccia di banana e cade. La gente guarda e ride. Poi si scopre che sta male, è una brutta caduta. Lo portano in ospedale, muore. Alcune delle persone presenti non lo sapranno mai e continueranno a ridere ripensando alla scena.

2. Un uomo entra in un caffè: splash. La gente ride. L’uomo ha ustioni di terzo grado, perché il caffè era bollente. Sopravvive ma non tornerà mai alla sua vita normale. La scena diventa una battuta che fa ridere molte persone, anche a distanza di anni. Per lui evoca ogni volta una sofferenza che lo accompagnerà per tutto il resto della sua vita.

La comicità ci libera dalla necessità di provare compassione. Crea una situazione crudele, la osserva a distanza, ne sfrutta il potenziale esilarante e la abbandona all’oblio, impedendo alla tragedia di nascere dalle sue ceneri. Gran parte dell’ironia e del sarcasmo gratuito che traboccano dai social, sono una distorsione di questo principio.

Le conseguenze

Al comico non interessano le conseguenze delle sue azioni, la risata non è filantropia, crea il disastro per lasciare i protagonisti in balia del proprio destino. I Coniglietti suicidi di Andy Riley sono illustrazioni in cui dei coniglietti cercano di togliersi la vita nei modi più disparati. Le scene rappresentano spesso l’attimo prima del gesto estremo, nessuna empatia per i coniglietti, ma solo un sorriso per l’accanimento con cui cercano ogni volta un modo diverso e crudele per autodistruggersi. Padre Ubu, il protagonista dell’Ubu Roi di Jarry, vuole impossessarsi del potere per diventare re di Polonia e, in un crescendo farsesco, uccide il re e manda a morte tutti i nobili, facendoli decervellare senza alcuna pietà. Wile E. Coyote, il personaggio della Warner Bros., cerca spasmodicamente di acchiappare lo struzzo Road Runner. S’ingegna, crea situazioni, marchingegni, trappole, ma tutto gli si ritorce contro e ne subisce i dolorosi effetti. A noi non dispiace, anzi ridiamo di lui che esplode, precipita, viene fatto a pezzi in continuazione.

Il rapporto con il potere

Wile E. Coyote è il predatore incapace, messo alla berlina dalla preda che lo deride e appare per guardare i momenti in cui le trappole gli si ritorcono contro. Un ribaltamento dei ruoli che giustifica il riso: ridiamo del potente che non riesce ad attuare la sopraffazione. Ma ridiamo anche di Fantozzi, il ragioniere creato da Paolo Villaggio, il nato per subire, l’eterna vittima. La scena in cui viene crocifisso in sala mensa, o quella in cui sale sulla bicicletta a cui è caduto il sellino, scatenano da sempre grasse risate. Eppure, qui è il debole che soffre. Non è il trovarsi dalla parte giusta a provocare la risata, ma percepire una crudeltà distante, che potremmo subire, ma non ci tocca. «Quelli che non hanno mai avuto un incidente mortale, oh yes», canta Jannacci nella canzone scritta con Beppe Viola. Eccoci, siamo noi. Il nostro scampato pericolo ci fa ridere di cuore. A scapito di chi soffre e muore nella scena comica.

Il dolore è un’illusione

Sempre in Fantozzi c’è una scena in cui è notte e lui sta montando la sua tenda in campeggio. A un certo punto si colpisce la mano col martello e, per non svegliare nessuno, per non disturbare, corre sulla collina più vicina e si mette a gridare. Il dolore non è da esibire, si ridimensiona nella caricatura. In questo caso, allungando il tempo tra azione e reazione, il dispiacere viene superato dalla risata. Poco dopo tutto è passato in modo evidentemente inverosimile, ma il comico non ha bisogno della sospensione dell’incredulità, piuttosto di una sospensione della prevedibilità, tutto può succedere, le regole si ridefiniscono in continuazione e non sono quelle del mondo reale. Nei Griffin, la serie animata che costruisce una parodia della famiglia americana, ai personaggi succede di tutto, vengono uccisi, torturati, decapitati, disossati, ma nella scena successiva ritornano sempre in perfetta forma. Il dolore è un’illusione. Il mondo comico non è il mondo reale, anche se gli assomiglia. È un mondo potenziale, in cui tutto può accadere. Anche io sono vittima dell’illusione. Da sempre credo di essere il più grande scrittore di tutti i tempi, ma non ho mai scritto un romanzo. Quando lo dico la gente ride. E più ride, più aumenta il mio dolore, che in questo caso è talmente esibito da sembrare inverosimile. Così un giorno anch’io sono entrato in un caffè per compiere un gesto estremo, con l’obiettivo di fare splash, ma mi sono reso conto che le tazzine sono troppo piccole.

L’esagerazione

L’importante è esagerare, cantava Jannacci. Tazzine grandissime, personaggi giganteschi, come Gargantua e Pantagruel di Rabelais, catene di montaggio a velocità vorticosa, come in Tempi Moderni di Chaplin.
In un famoso sketch di Gigi Proietti c’è lui che si sveglia e inizia a ripetere ossessivamente il numero diciotto, a perdifiato. Diciotto mentre si prepara, diciotto mentre esce di casa e cammina per strada, diciotto mentre sale sull’autobus. Un passeggero accanto a lui gli chiede il perché di questa ripetizione. «Eccone n’altro che n’ se fa li cazzi sua. Diciannove, diciannove…», la pronta risposta che lo fulmina. Ai bordi della battuta però c’è un personaggio ossessivo, che da ore (giorni? mesi?) ripete costantemente dei numeri, in ordine crescente e chissà per quanto lo farà. Per tenere il conto delle persone indiscrete, ha fatto delle sue giornate una continua litania numerica. Fuori dalla barzelletta è evidentemente un matto.

La follia

La follia ha un rapporto stretto con la comicità. A partire dalla parola Fool, che indica sia il pazzo che il buffone di corte. Comico è il Carnevale, l’abbandono dei rigidi codici sociali in virtù della follia. Il Carnevale è il momento della libertà: ognuno è nascosto da una maschera, da un travestimento, è altro da sé. La follia è il tentativo d’impunità, il lasciapassare per la trasgressione delle regole, nutrimento del comico. Il mascheramento è anche alla base delle riflessioni di Pirandello, dei suoi lavori e della teoria umoristica. Secondo questa teoria ogni persona indossa una maschera per vivere nella società, vivendo una vita di apparenze. Solo alcuni riescono a togliere la maschera e sono identificati come folli. D’altra parte, il paralogismo, il discorso che segue una logica distorta, è un meccanismo comico, ma anche una caratteristica di chi perde il senno e si produce in logiche assurde e imprevedibili. È comico il matto, lo scemo del villaggio, perché produttore continuo di imprevisti, è una scheggia incontrollata che mina la realtà e cambia i codici. Comico è lo slancio di Don Chisciotte quando lotta contro i giganti, che però sono solo nella sua testa. In realtà quelli che lui vede come giganti sono dei semplici mulini a vento.

Il punto di vista

Il comico è anche la visione personale che si scontra con la visione esterna. Non sempre entrambe le visioni fanno ridere. Don Chisciotte, dopo aver letto dei romanzi cavallereschi, si convince d’essere lui stesso un cavaliere e si crea una realtà personale, che però agli occhi esterni appare comica in ogni sua manifestazione. Fantozzi subisce continuamente la realtà e chiunque gli sia vicino lo tratta come ultima ruota del carro. La risata, in questo caso, è riservata solo agli spettatori. L’immagine perfetta è quella della “nuvola dell’impiegato”, che lo segue sempre e fa piovere solo su di lui. Per gli altri il cielo è sereno e la sua condizione fa ridere, poco importa se si bagna. Una delle tecniche della comicità è quella di riuscire a spostare il punto di vista sulla realtà, guardare le cose in maniera multiforme, per trovare il lato comico delle cose. «Si può ridere di tutto, tutto può essere comico. […] Il lato comico delle cose non è dunque un lato ma l’intera superficie.»1

Il fraintendimento

Malerba ci ricorda che il comico non esiste in natura, ma è una caratteristica umana, legata all’elaborazione del pensiero. Personalmente credo che la comicità non esista, che sia frutto di un fraintendimento, che si collochi tra l’abbandono della tragedia e l’interferenza di mondi paralleli. Comunque, nella sua inesistenza, il comico è un oggetto prezioso, di cui avere gran cura. Permette chiavi d’accesso profonde alla realtà e alla creazione, quindi è un dispiacere relegarlo alla funzione di intrattenimento. Il comico dovrebbe essere denso, strappare via convinzioni, spostare l’asse del pensiero, togliere la terra dai piedi e dare come prospettiva il precipizio che, senza pensare all’atterraggio, è comunque un modo di volare.

Lo spiazzamento

Il comico è un modo quasi filosofico di intendere la vita, che propone un distacco dalla realtà. L’effetto comico è un sabotaggio della logica, è qualcosa che non è andato come dovrebbe, è il ricevimento elegante che finisce a torte in faccia. Io non cerco l’effetto comico, è lui che cerca me e ormai non posso farne a meno. È come se la mia mente, per spiazzarsi di continuo, per cambiare orizzonti, ne avesse bisogno. Per non restare immerso nel dramma del quotidiano uso il comico, che rompe le strutture. Quindi esercito la comicità mio malgrado: il dramma, quando eccede, fa ridere.

Il ghigno del cadavere

«I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse. Il comico che interessa a me è un’altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno del cadavere. Il comico è spesso involontario. Specialmente quando si sposa con il sublime», diceva Carmelo Bene. Nel lavoro teatrale che ho fatto con Luca Ruocco, nella nostra compagnia DoppioSenso Unico, la matrice fondamentale era l’utilizzo della comicità per parlare di argomenti tabù, esplorarli e renderli accessibili, vicini. La trilogia Niente di nuovo sotto il suolo, che io e Luca abbiamo scritto e messo in scena tra il 2013 e il 2015, è composta da tre spettacoli che parlano di argomenti drammatici (il suicidio, l’alienazione, la malattia) presentati in chiave comica e assurda, nel tentativo di creare in teatro un mondo parallelo in cui filtrare dalla realtà il senso più profondo. Usavamo dei meccanismi comici molto contestuali, che dipendevano dai continui slittamenti di situazione in cui ci si trovava. Il pubblico era trascinato nella risata senza capire perché; poi, entrando nei meccanismi assurdi, rideva sempre di più. E meno male, perché ricordo che io e Luca, appena prima dei debutti, negli intervalli delle prove ossessive, ci dicevamo «questa volta non farà ridere, è un testo drammatico». E poi la gente rideva. Noi meno, ma eravamo contenti.

Il comico povero

Da un misto di comicità e disperazione è nata invece l’avventura del varietà Sgombro. Cinque artisti in odore di povertà (io, Daniele Parisi, Claudio Morici, Davide Grillo e Marco Andreoli) trovano un posto in cui possono mangiare fuori senza spendere molto, ed è subito movimento culturale. Il posto è la Tana Sarda a San Lorenzo, in cui ci vedevamo frequentemente, pranzavamo spendendo tra 3 e 4 euro, incontravamo amici e colleghi, improvvisando riunioni di lavoro e parlando di progetti in corso e di idee che poi si sarebbero intrecciate nel varietà Sgombro. Vicino alla Tana Sarda c’è il Nuovo Cinema Palazzo, uno spazio sociale e culturale fondamentale per il quadrante est di Roma. Noi ci mettevamo in scena già i nostri spettacoli, loro cercavano un progetto da portare in scena con continuità. Abbiamo palleggiato a lungo, tra chiacchiere e amatriciane popolari, nel tentativo di non prendere impegni e responsabilità. Poi Parisi ha rotto gli indugi e ha fissato la prima data, iniziando un percorso importante che poi è stato la nostra felicità. Si sono subito uniti Gioia Salvatori, il Nano Egidio, Giovan Bartolo Botta, Cecilia D’Amico, Enoch Marrella, più numerosi ospiti, artisti che si riconoscevano in quella situazione, sebbene ognuno avesse le sue diverse caratteristiche e forme. Il discorso si è fatto comico e popolare.

La comicità comunitaria

La possibilità di stare al Nuovo Cinema Palazzo, la comunità che si era creata, la mia presenza come presentatore che creava un filo conduttore, ha permesso agli interventi di ognuno di essere valorizzati, contestualizzati. Il comico non era tra i presupposti principali, ma ognuno ne ha utilizzato una sfumatura nel proprio percorso. E piano piano si è affinato un dialogo tra noi, su contenuti e possibilità. Il pubblico ci ha seguito da subito in modo esponenziale: da ottanta presenze alla prima data, fino ad arrivare alle quattrocento persone dell’ultima replica pre-pandemia. Amici artisti di tutta Italia passavano a fare un pezzo a Sgombro, quando si trovavano di passaggio per Roma. Il senso di comunità si era esteso e vivevamo queste serate flusso in un dialogo costante con il pubblico. Come accade per tutte le cose importanti, a un certo punto qualcuno ha deciso che il Nuovo Cinema Palazzo andasse chiuso. Lo sgombero, esorcizzato invano dal titolo del nostro Sgombro, è stato attuato durante la pandemia. Per fortuna nel vuoto drammatico che si è creato, ci ha accolto il Teatro di Roma, permettendoci di progettare una continuità. I componenti attuali di Sgombro (io, Parisi, Salvatori, Grillo, Nano Egidio e Botta) sono stati inseriti nella programmazione del Teatro Torlonia. Aspettiamo che riaprano i teatri per continuare a esplorare questa forma di comicità condivisa e popolare.

L’importanza dell’impaginazione

In molti hanno provato a definire la comicità con teorie elaborate e saggi voluminosi. Attività non inutile ma che si scontra con l’ineffabile natura del comico. Citando Cicerone, sempre attraverso il libro di Malerba, «Coloro che hanno tentato di spiegare il concetto e l’arte del comico sono risultati così insulsi da finire per essere derisi per la loro stessa insulsaggine». Quindi vi consiglio di non leggere questo articoletto, per dedicarvi a qualcosa di più utile e divertente. Questo paragrafo era stato scritto per essere inserito all’inizio dell’articolo, ma purtroppo impaginare correttamente un testo non è così facile come molti credono.

Ivan Talarico

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1. Luigi Malerba, Strategie del comico, Quodlibet 2018

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