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Autointervista per mancanza di interlocutori

#1 Attitudini poetiche della città di Perugia

D: Che tipo di poeta pensa di essere?
R: Ci sono tanti tipi di poeti: da antologia, da manuale, sperimentali, sperimentati, da sera, di nozze, da baci perugina. Ecco, io penso di essere il contrario di quest’ultimo tipo.
D: Cioè?
R: Mettiamo il caso che lei si trovi a Perugia. Sta passeggiando in una stradina del centro, è domenica e sono le 15.48. Il cielo è nuvoloso e l’aria afosa. Lei sta sudando, suda molto, si sente un piccolo corso d’acqua. Intorno la città è architettonicamente pesante, volte e contrafforti sembrano appoggiarsi su di lei. Ecco, a un certo punto il cielo si apre e dai nembi scuri esce uno sconosciuto che la raggiunge, le dà uno schiaffo e poi sparisce in un vicolo secondario. Quello sconosciuto sono io.
D: E lo schiaffo è la poesia?
R: Quale poesia, mi scusi?

#2 Ne avrei viste di tutti i colori se non fossi daltonico

D: Lei è daltonico?
R: Diciamo che non riconosco bene alcune sfumature. Quello che succede tra il rosso, il verde e il giallo è un mio personalissimo triangolo delle Bermuda.
D: E da cosa deriva questa scarsa confidenza?
R: È una forma di superficialità, un qualunquismo cromatico. Penso di non riconoscere i colori perché non li ho mai conosciuti. Nessuno quand’ero piccolo mi si è presentato come Bordeaux o Lilla o Terra di Siena Bruciata. Li vedevo apparire e sparire, sempre distanti e inafferrabili.
D: Ognuno per i fatti propri.
R: Mica tanto. Perché spesso loro si presentano come fossero personaggi famosi. Arriva l’Amaranto, non ti degna di uno sguardo e pretende di essere riconosciuto. Ma chi sei? Dov’eri quando stavo male?
D: Possiamo dire che c’è dell’odio verso i colori?
R: Forse verso alcuni, ma non sono tutti uguali. Il Giallo ad esempio mi è sempre stato vicino, sempre riconoscibile e solare, allegro. Senza mai pretendere nulla in cambio.
D: E il blu?
R: È uno dei pochi di cui distinguo le sfumature. È un colore immenso, difficile da rinchiudere in tre lettere. C’è il blu cobalto, l’oltremare, l’elettrico, il ceruleo, il fiordaliso, il pavone, il notte, il Klein, l’egiziano, il blu di Prussia… Spesso inizio a pensare alle sfumature del blu e mi ritrovano giorni dopo in aperta campagna a costruire laghi.

#3 Un lavoro sicuro

D: Ha mai avuto la sindrome dell’impostore?
R: No.
D: Molte persone ce l’hanno, si sentono inadeguate in quello che fanno.
R: Mi spiace molto per loro, ma non fa per me. Scelgo con cura le mie sindromi.
D: Quindi lei è sempre a suo agio in quello che fa?
R: Certo, il mio mestiere mi permette una grande disinvoltura.
D: Il suo lavoro come cantautore?
R: No, no.
D: Come autore allora?
R: Ma no, non è quello il mio vero mestiere.
D: Teatrante, poeta, creativo?
R: Quelli non sono esattamente lavori…
D: Insegnante?
R: No, no.
D: Qual è il suo mestiere, allora? Me lo dica lei.
R: Faccio l’impostore. Con rigore e metodo.
D: Cioè?
R: Le spiego. Ad esempio, ora lei mi sta intervistando e io le sto rispondendo come se sapessi tutto di me stesso. Invece non so nulla, non mi conosco, non mi frequento al di fuori delle interviste. Non è una sindrome, io sono un impostore vero, e questo mi rasserena. Percepisco anche uno stipendio per questo, sa?

#4 Milano e il fango

D: Per un periodo hai vissuto a Milano.
R: Sì, erano gli anni ’80. A quei tempi la città si chiamava ancora Mediolanum ed era una specie di palude fangosa. Di quegli anni ricordo un’umidità incredibile nei pensieri e una tenera storia d’amore.
D: Te la vuoi raccontare?
R: Sì, lei si chiamava Martina, era una ragazza dalla bellezza cangiante di cui mi ero innamorato in un giorno di bonifica. Abbiamo vissuto insieme per due anni, io con la testa a Bali e il corpo a Cinisello Balsamo, lei con i piedi saldamente piantati nel centro della città. Era urbana di famiglia, Longobarda da generazioni, quasi esaltata quando parlava della città. Diceva che Milano è il centro del mondo, io vedevo solo fango.
D: E com’è finita la vostra relazione?
R: Un giorno è uscita di casa e mi sono sentito chiamare. Stava sprofondando nel fango, come fossero sabbie mobili. Ho cercato di salvarla, ma poi ho capito che non voleva, preferiva diventare una cosa sola con la città. Quindi ora è parte del suolo. Credo che il quartiere Bovisa debba molto alla sua presenza sotterranea inerte.
D: Ha continuato ad abitare a Milano?
R: No, avevo paura di essere inghiottito anch’io. Così mi sono trasferito per quindici anni a Sighișoara, in Transilvania ed ho abitato in una bolla di sapone in periferia. Quelli sono stati anni stupendi, per tutto il tempo non è successo nulla, quindi non ho niente da raccontare.

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