Lambisco le guance di lance sottili.
Dismembro il costato, trapunto e filato,
con dita ridenti distese e leggere.
Tu volgi il bacino, disarmi la bocca,
io levo gli ormeggi, dinocco le gambe.
Trattieni il respiro fin tanto ch’è notte,
io poggio la tempia sull’anca rapita.
Il femore alterno dimena le spire,
fremendo di palpito già giugulare.
Il collo sui denti diventa parlare,
il seno e la spalla si vogliono armare
di tante spiacevoli amare distanze,
di anse svuotate già pronte all’invaso
di gelido marmo alla prima marea.
Le natiche atterrano di chetichella
il sesso barbuto ch’è sempre piaciuto.
Di spesse premure, di gomiti aperti,
di volti scoperti al primo albeggiare.
Tuffarsi nell’onda di scapola e addome,
sentire il burrone, cadervi se piove.
Tensione dei muscoli avvolti al torace
del corpo che piace vedere e ammirare.
Del timido sterno, preludio d’inverno,
dell’ampia fiancata per corsa affannata,
dell’utile piede che offerto a chi vede
nasconde la forma del timido abbraccio,
del dire “ti piaccio” spolpando il polpaccio.
Tradire l’inganno del corpo che pensa
e fuggire di struscio,
giocandosi a soffi la vita percossa,
la notte riposta nel terzo cassetto,
sfinito l’affetto e a letto disfatto.
Ivan Talarico
Pubblicata in Ogni giorno di felicità è una poesia che muore, Gorilla Sapiens Edizioni 2014